Il sogno della modernità

Sono nato a Ceggia, un paesino della provincia di Venezia, il 19 aprile del ’52, primogenito di Gino e Ines, due giovani che si erano sposati un paio di mesi prima: i miei genitori erano persone piene di coraggio e, a quei tempi, ce ne voleva non poco per presentarsi in chiesa con un erede già nella pancia della sposa. Entrambi amavano la radio, io ascoltavo quella musica che forse è diventato un imprinting, una direzione per tutta la vita. Mio padre era il ribelle della famiglia, non faceva per lui, con l’animo del viaggiatore, il legame con la terra che ti tiene fermo, anni e anni, senza scosse. Gino sognava la città, la tecnologia e strade lunghissime da percorrere giorno e notte con un senso moderno di libertà. Un anno e mezzo dopo, infatti, nacque mia sorella Daniela e nel giro di qualche mese, alla fine del ’53, fummo a Milano, per cambiare vita e per continuare a sognare.

La colonna sonora della mia infanzia

Milano non era ancora, agli inizi degli anni ’50, la metropoli che è oggi. Ma per i miei genitori realizzò in buona parte le speranze per cui erano partiti. Mio padre avrebbe potuto coltivare la sua passione per tutto quello che di nuovo appariva all’orizzonte. Divenne camionista di linea, vendette la sua vecchia 1.100 e con il ricavato poté acquistare un’utilitaria, un mobiletto con la radio e il giradischi incorporati e la tv, a rate, che allora rappresentava un lusso che ben pochi volevano permettersi.

Sono diventato in fretta un appassionato ascoltatore e telespettatore. Mai avrei immaginato di poter stare dall’altra parte. Non lo immaginavo, ma forse qualcosa dentro di me aspirava a questo anche se non ancora non lo sapevo. 

L’importante è che qualcuno suoni bene: non è necessario che quel qualcuno sia tu!

Quando vivevamo al Giambellino cominciai a frequentare la Parrocchia di San Murialdo e il suo oratorio. Facevo il chierichetto, lo scout, il venditore di Famiglia Cristiana e questo, credo, mi insegnò a cercare quello che era buono per me ma anche per gli altri: non può esserci gioia senza condivisione. Facevo ancora le medie che imparai a suonare la batteria sui fustini del detersivo perché alcuni compagni, intenzionati a formare un complessino, mi chiesero di fare il batterista: amavo il ritmo e mi tuffai in quel sogno. Suonando, riuscivo anche a guadagnare qualcosa. Smisi, quando, fui sostituito da uno molto più bravo. Che importava? L’importante era che la band avesse un batterista bravo, non che il batterista fossi io.

Mio padre disse: “Il batterista sta sempre in fondo ed è sempre coperto dai piatti”. Forse lui sapeva, chissà come, che non avevo la stoffa del grande musicista. Vendetti la mia mitica batteria Ludwig e comprai uno stereo Hi Fi, una meraviglia della tecnologia, sebbene usato.

Mi iscrissi a un Istituto Tecnico e continuai ad ascoltare la musica e ad amarla, forse più di prima. Mi appassionavano le storie dei manager degli artisti e di quei personaggi, i talent scout, capaci di scoprirne di nuovi. E, anche in questo caso, non avrei potuto immaginare che un giorno quel mestiere così affascinante ai miei occhi di ragazzino sarebbe diventato il mio.

A tutta musica nel mondo che cambia

Gli anni all’Istituto Tecnico Feltrinelli volarono e, finita la suola, pensai che fosse tempo di cercare un lavoro per occuparmi di musica. Con mio padre non si poteva discutere, tenni il sogno nel cassetto e mi iscrissi all’università: “Scienza delle preparazioni alimentari”. Ma guadagnare qualche soldo era per me irrinunciabile e, a un certo punto, mi trovai un po’ per caso dietro a una consolle. Era il 1973. Nascevano allora le prime discoteche. Dopo pochi anni, nel ’76, mi ritrovai a lavorare al Divina, una dei locali più all’avanguardia e più noti in Italia. Lì capii che quel nuovo lavoro cui mi dedicavo con tanta passione, più che di tecnica doveva nutrirsi di parole. Saper animare la serata, incitare il pubblico, parlare sui dischi era più importante che mixarli. E così, nonostante una certa timidezza, mi lanciai nella nuova avventura, aiutato dal fatto che già da un anno lavoravo in radio, prima Milano International poi Radio 105. Era partita la storia mitica delle emittenti private e fui tra i primi a cavalcare l’onda. Anche le tv commerciali muovevano i loro primi passi e fui chiamato, nel 1978, da Mike Bongiorno, il direttore artistico di Telemilano 58 (poi Canale 5), a presentare Chewing Gum, il primo programma musicale dell’emittente. Il mondo stava cambiando e io mi sentivo parte integrante di quel cambiamento, un po’ come mio padre, che aveva corso i suoi rischi pur di prendervi parte. Dovetti lasciare l’università – poco male, non me pentii mai – ed ebbi tante esperienze importanti, che mi aiutarono a trovare la mia strada. Sono stati anni fondamentali. Quando capisci chi sei, il futuro è aperto e pieno di possibilità. Tu lavora seriamente, divertiti lavorando, non mollare la presa e il mondo ti darà ragione.

Da Discoring al Festival di Sanremo

E poi la fortuna ti bacia, premiando la tua ostinazione, i sacrifici fatti e le scelte coraggiose.
Nel 1979, dopo un provino al cardiopalma, venni preso dalla Rai a Discoring, un programma cult, e nel 1980 approdai addirittura a Sanremo come presentatore del Festival.
Fu un’edizione rivoluzionaria, che risollevò le sorti di una manifestazione in profonda crisi, e che ebbe 20 milioni di telespettatori, un vero e proprio trionfo personale, tanto che poi ne condussi altre due.
Il 1981 fu anche l’anno di Gioca Jouer, il singolo di cui scrissi il testo musicato da Enrico Simonetti. Un gioco associato alla musica, sigla – la prima in assoluto – del Festival del 1981: vendette 500.000 copie nel primo trimestre dalla sua uscita; qualcuno mi disse, e credo non avesse torto, che con il Gioca Jouer ero stato io il vero vincitore del Festival. 

Editore, produttore e talent scout per vocazione

Insieme ad artisti già pienamente affermati, sempre per la RAI, avevo presentato Scacco Matto e, l’anno successivo, Fantastico 2, entrambi collegati alla Lotteria Italia. Era accaduto tutto in fretta, tutto insieme. Finalmente potevo realizzare i miei progetti. Per questo firmai un contratto con la Fininvest, accettando un’offerta nettamente superiore a quella della RAI. Volevo fare qualcosa di mio, qualcosa per cui stavo investendo tutto il guadagno di quegli anni.
Volevo fare Radio DeeJay. E l’ho fatta. Era l’1 febbraio dell’82. Fu quella una stagione straordinaria in cui, oltre alla radio, portai al successo DeeJay Television. Nel 1984 esordii anche come produttore discografico. Amavo ed amo il talento, lo vedo subito, brilla.
Mi accendo quando scopro un artista. Penso subito a come fare per aiutarlo a diventare il numero UNO. Numeri uno come Gerry Scotti, Jovanotti, Fiorello, gli 883 di Max Pezzali, Pieraccioni, Amadeus, Sandy Marton, Taffy, Tracy Spencer, Sabrina Salerno… e poi Fabio Volo, Marco Mazzoli, Daniele Bossari, Marco Baldini, Luca Laurenti, i Finley, DJ Francesco… dimenticando sicuramente qualcuno… il talento che scoprirò domani!