La passione per i fumetti

Sono nato a Imperia nel 1967, in un tempo in cui i bambini si divertivano con poco e bastava anche solo un fumetto per traghettare in un mondo nel quale curiosi omini o animali prendevano vita, protagonisti di storie buffe e improbabili. Forse proprio perché molto timido, sono sempre stato, sin da piccolo, un appassionato disegnatore. Mi esprimevo in quel modo: amavo i fumetti e mi divertivo a raffigurarli ovunque. Di recente, nella mia casa d’infanzia, ho ritrovato sotto il piano di un tavolo tutti i personaggi che disegnavo di nascosto: un’autentica sorpresa, perché non ricordavo di averlo fatto.

Dopo le medie, scelsi il liceo artistico a Savona. Vivevo in un paesino della provincia e ogni mattina mi toccava alzarmi presto e prendere un trenino, uno di quelli con i sedili di legno, per andare a scuola. I miei erano preoccupati per la mia forma mentis così particolare: avrebbero voluto per me qualcosa di meno aleatorio, tanto che mia madre cercò di farmi fare la ragioneria. Ci fu un periodo di conflitto per questo, che per fortuna non durò molto: a un certo punto si misero l’anima in pace quando compresero che io non avrei ceduto. Al liceo ho poi approfondito questa mia passione: lì ho cominciato a capire che poteva diventare qualcosa di più. 

L’Accademia di Brera

Dopo il Liceo, a 18 anni, mi sono trasferito a Milano per studiare nell’Accademia delle Belle Arti di Brera, una scuola mitica, che ha fatto ampiamente la sua parte nei linguaggi dell’arte contemporanea. Per mantenermi agli studi lavoravo in un’azienda di Empoli che si occupava di decorazioni su vetro. Nonostante la mia passione per l’arte non diedi nessun problema alla mia famiglia: aprii allora la mia Partita Iva.

All’Accademia devo tutto: buona parte di ciò che accaduto dopo nella mia vita è dipeso da quei quattro anni tanto che quando, alla soglia dei 50 anni, sono stato chiamato a insegnare all’Accademia di Catanzaro ho accettato il lavoro per una forma di riconoscenza verso questo tipo di istituzioni, anche se esse in Italia non sono molto riconosciute. Tra i miei docenti di allora c’erano personaggi incredibili come Luciano Fabro, Roberto Sanesi, Miklos Varga…l’atmosfera era bellissima, molto stimolante. Io frequentavo i corsi di pittura ma quando vedevo passare per i corridoi un personaggio come Alik Cavaliere, che dirigeva l’aula di scultura, mi emozionavo. Avevo seguito la sua storia di artista: era un uomo davvero affascinante e, per i suoi allievi, uno straordinario docente…una di quelle figure autorevoli, importanti per la storia della cultura italiana, a cui noi studenti guardavamo con rispetto e ammirazione. Ognuno di loro ha lasciato qualcosa di significativo e dei ricordi indimenticabili.

Su maestri…

Ma nei confronti di quei maestri non c’era solo rispetto: c’era, soprattutto, il riconoscimento di un ruolo, cosa che, per lo più, oggi manca. Per me avere un mentore è stato importante soprattutto da un punto di vista tecnico. Ho imparato moltissimo lavorando negli studi degli artisti come assistente. Farei fatica a dire chi sono i miei maestri…alcuni molti “lontani”, alcuni non li ho mai conosciuti. Tutta la storia dell’arte confluisce nel lavoro di un artista. Siamo un po’ figli di tre-quattrocento anni di storia: quanti maestri potrei enumerare? Almeno una cinquantina. 

Quando questo lavoro diventa una passione così travolgente che ti prende tutta la vita, cominci a sentire come un sentimento di filiazione e di complicità con artisti anche molto distanti temporalmente o geograficamente.

…e mentori

Intorno ai vent’anni collaborai con un artista americano, Allan Kaprow, che era a Milano per l’allestimento di una mostra alla Fondazione Mudima. A lui si deve l’invenzione delle performance con l’apporto di pubblico. Quei tre mesi trascorsi con Allan in un capannone vicino a Linate per me sono stati molto importanti. Lui veniva dal mondo della cultura degli anni ‘60 americani: mi raccontava delle sue esperienze da giovane, della sua amicizia con John Cage, della comunità hippie di San Diego, della beat generation… In quei mesi con Allan ho capito che veramente la storia siamo noi. Non è uno slogan: come artisti, davvero abbiamo fatto un pezzo della storia di questo Paese. Gli artisti sono persone normali, ma hanno anche delle antenne molto capaci…soprattutto quelli che sono in grado di incidere nell’evoluzione del linguaggio possono lasciare un segno molto profondo a livello sociale.

Dalla pittura alla scultura

Nel periodo in cui ho finito l’Accademia si lavorava su un linguaggio concettuale abbastanza freddo: cercai di adeguarmi a quel canone, ma non mi apparteneva. Quando me ne accorsi azzerai tutto e cominciai con qualcosa in cui riconoscermi sul serio: ed erano i contenuti della pittura infantile. Per cui ho cominciato a lavorare sui personaggi dei fumetti e delle favole. Da piccolo immaginavo che la pittura sarebbe stato lo sbocco più normale, ho imparato a dipingere e dipingevo, utilizzando tutti i segreti del mestieri. Ma a un certo punto della mia vita mi sono trovato a fare delle sculture: non avevo mai studiato scultura. In questo sono totalmente autodidatta, ma mi sono accorto, scolpendo, che l’opera veniva fuori in modo fluido, senza intoppi, cosa, questa, che invece non accadeva con i dipinti. Ho capito, mio malgrado, che non ero un pittore ma uno scultore. Per la mia sensibilità trovo molto più complesso dipingere.

Dal 1993 ho esposto in personali e collettive in tutta Italia, mentre all’estero il mio lavoro è stato presentato a Shanghai, Tel Aviv, Londra, New York, Los Angeles, Colonia, Lugano… Ricordo il primo lavoro che ha avuto abbastanza successo: “L’assassinio di Beep”, del ’94. Questa scultura mise sotto i riflettori i miei lavori perché ero riuscito ad andare oltre il consueto.

Ho scoperto allora che la mia idea di lavorare con un canone comprensibile al pubblico trovava molto seguito. Le persone avevano bisogno di potersi riconoscere e immedesimare, non volevano qualcuno che gli spiegasse cosa stava vedendo. Certo anche “L’assassinio di Beep” era una metafora, ma il primo impatto era diretto. Questa è una caratteristica che il mio lavoro ha conservato: o piace o non piace, ma non è possibile che non sia compreso. 

I miei personaggi

In quegli anni, oltre che sul fumetto e sulle favole, ho iniziato a lavorare su un’idea di figura. Ogni bambino ha un compagno di giochi immaginario …io ho cercato di trasformare in qualcosa di reale questo tipo di personaggi. Le prima volta che ho realizzato figure con le gambe lunghe volevo fare dei personaggi che dessero l’idea di essere molto veloci. Non sono in conflitto con la materia: cerco di lavorare sull’eleganza, sull’equilibrio, sull’attesa. Il centro per me è la distanza.

Le mie forme sono un po’ timide, un po’ appartate, non vanno verso il pubblico. Li metto un po’ in alto i miei personaggi. Loro sono anche un po’ scorbutici, un po’ scontrosi, non è che abbiano tutta questa voglia di apparire. Un mio amico anni fa mi ha detto di loro una cosa bellissima: che sembravano le bacchette di un direttore d’orchestra prima che iniziasse il concerto…ecco, l’attimo prima che tutto inizi, ma dentro c’è già tutto, probabilmente c’è anche il dopo. I miei personaggi sono delle idee, delle idee di una figurazione… perché l’uomo è costretto a raccontare la sua storia.

Mi piace pensare che il pubblico possa immedesimarsi in essi…meno sono definiti più è facile che questo accada: per cui non sono né maschi né femmine, né alti né bassi, né magri né grassi… sono figure umane, come siamo noi, forse solo un po’ più ombre di quanto siamo noi. Sono dei dubbi tridimensionali. “Minacciano” di fare delle cose…più tolgo io, questa è la cosa divertente, più il pubblico aggiunge…

Non credo di avere delle grandi verità da proclamare, se ce l’avessi forse riuscirei a fare delle figure vere e proprie… Io sono un disegnatore della scultura. Solo questo.